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5 cose da sapere sulla Conferenza di Parigi sul clima – Infografica

Gli effetti dei cambiamenti climatici saranno subiti dai cittadini di tutto il mondo, in molti modi diversi. Tuttavia, i cambiamenti climatici colpiscono soprattutto le popolazioni più povere.

 

La Conferenza sul clima di Parigi (COP21) è iniziata, il presidente François Hollande ha spiegato che questo evento “porterà speranza e della solidarietà”, gli ha fatto eco Barack Obama: “Bisogna agire ora, mettendo da parte gli interessi di breve termine. Siamo l’ultima generazione a poter salvare il pianeta” . Ma perché è così importante la Conferenza di Parigi?

Ho provato a riassumere le cinque cose che dovete sapere su COP21 e perché è così importante.

1. Che cos’è COP21 e chi ci sarà?

La COP21, conosciuta anche come la Conferenza di Parigi 2015 sul Clima, per la prima volta in oltre 20 anni di negoziati delle Nazioni Unite, mira a raggiungere un accordo giuridicamente vincolante e universale sul clima, con l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 °C . La Conferenza si tiene a Parigi in questi giorni e fino all’11 dicembre.

COP21 sta per la Conferenza delle Parti, che è un incontro annuale composto dai 195 membri che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), entrata in vigore nel 1994. La conferenza vede la partecipazione di leader e primi ministri di tutti i governi del mondo. Costoro hanno il mandato di firmare un contratto vincolante per conto dei loro paesi. Sono presenti anche importanti multinazionali e le organizzazioni non governative. Dall’Italia più di 200 aziende con sede nel nostro paese hanno firmato e consegnato al ministro dell’ambiente Galletti (tra queste ERG Renew, Poste Italiane, Terna, Gse, Barilla, Carlsberg, BioChemtex, Ferrovie dello Stato, Novamont, Philips Italia, Unilever Italia e L’Oréal Italia) un appello nel quale si chiede una normativa che agevoli le iniziative per fronteggiare i cambiamenti climatici e la richiesta che a Parigi vengano adottati target vincolanti.

La conferenza stanzierà 100 miliardi di dollari in fondi per aiutare le nazioni a contribuire alla riduzione delle emissioni. L’attuale accordo si esaurisce tra 5 anni e molti degli obiettivi non sono stati raggiunti. COP21 è un’opportunità per i paesi di impostare un accordo di lungo termine.

2. L’esito di questa conferenza potrà effettivamente influenzare la vita delle persone, nelle comunità di tutto il mondo?

Gli effetti dei cambiamenti climatici saranno subiti dai cittadini di tutto il mondo, in molti modi diversi. Tuttavia, i cambiamenti climatici colpiscono soprattutto le popolazioni più povere. La Banca Mondiale ha riferito che entro il 2030, 100 milioni di persone potrebbero essere costrette in condizioni di estrema povertà a causa dei cambiamenti climatici. Quando la temperatura media globale aumenterà porterà a una scarsità d’acqua che diminuirà i terreni coltivabili, questo spingerà i poveri a soffrire ancora più povertà. E causerà massicce migrazioni dalle regioni del sud a quelle del nord. Provate ad immaginare con quali effetti…

Il cambiamento climatico aggrava anche problemi esistenti, come le catastrofi naturali legate al clima, scarsità di risorse naturali, migrazioni e spostamenti, che colpiscono le persone di tutto il mondo. Affrontare questi problemi ora alla conferenza di Parigi è necessario, per essere in grado di lavorare verso gli obiettivi globali (OSS) e realizzare un futuro più sostenibile per le persone e il pianeta. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sono un accordo globale per sradicare la povertà estrema e di affrontare il caos climatico entro il 2030. La conferenza di Parigi è una parte fondamentale di questa tabella di marcia per il mondo verso il raggiungimento di questi obiettivi. In questo modo, i cambiamenti climatici e lo sviluppo internazionale sono

fonte:violapost.it

Gli ultimi giorni di Gioacchino Murat. La cronaca da un manoscritto del 1838

Designato nel 1808 Re di Napoli da Napoleone Bonaparte, dopo che il trono sottratto ai Borbone si era reso vacante per la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Gioacchino Murat (Labastide-FortunieÁre, 25 marzo 1767 ± Pizzo Calabro, 13 ottobre 1815), noto come “Gioacchino Napoleone”, fu accolto favorevolmente dalla popolazione napoletana, che ne aveva apprezzato la bella presenza, il carattere forte e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria, ma fu, invece, detestato dal clero per averne soppresso ordini e confiscato beni.

Figlio di un albergatore, aveva studiato in seminario da cui fu poi espulso a vent’anni per rissa. Fece per tre anni il mestiere paterno, poi si arruolò prima come soldato semplice e in seguito parte della guardia costituzionale di Luigi XVI. Alla caduta della monarchia entrò nell’esercito rivoluzionario e divenne rapidamente ufficiale. Nel 1795 fu a Parigi a sostenere Napoleone contro l’insurrezione realista.

Lo seguì poi nella campagna d’Italia e in quella d’Egitto, dove fu nominato generale e fu determinante nella vittoria di Abukir contro i turchi. Partecipò attivamente al colpo di Stato del 18 brumaio 1799 e divenne comandante della guardia del Primo console.

L’anno seguente, il 20 gennaio, sposò la sorella minore di Napoleone, Carolina Bonaparte dalla quale ebbe quattro figli, due maschi e due femmine.

Significativo esempio della della mobilità sociale che caratterizzò  il periodo napoleonico, e anche delle conclusioni tragiche di molte folgoranti carriere, durante il suo breve regno Murat avviò non solo a Napoli, ma anche in Puglia ed in Calabria opere pubbliche di rilievo.

Dopo la caduta di Napoleone ed il trattato di Casalanza (20 maggio 1815) fu sancita definitivamente anche la sua caduta ed il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli.

Ciononostante, dopo aver tentato la fuga rifugiandosi nel castello di Rodi Garganico, Murat tentò di tornare a Napoli via mare per riconquistare il Regno, con la speranza di far leva sulla popolazione, ma una tempesta lo dirottò in Calabria, a Pizzo, la cui gente, deludendo le sue aspettative, ne facilitarono alle guardie borboniche la cattura.

Fatto prigioniero nel castello aragonese, fu processato da un tribunale militare e condannato alla fucilazione il 13 ottobre 1815.

Verso la fine dell’Ottocento furono pubblicate due memorie sugli ultimi momenti della vita di Murat: il manoscritto del canonico Tommaso Masdea (1) che confortò il Murat prima dell’esecuzione e quello di Antonino Condoleo (2) che assistette alla sepoltura.

Secondo il sacerdote Masdea il cadavere di Gioacchino Murat, riposto in un baule foderato di taffetà  nera, fu sepolto nella Chiesa Matrice da lui beneficata.

Per il Condoleo, invece, l’insanguinato cadavere fu subito messo in una rozza cassa di abete e fu portata da dodici soldati nella Chiesa Matrice. Nel deporla a terra, per l’urto ricevuto, la cassa si aprì negli spigoli, rivelando il volto pallido dell’ex Re, sfigurato da una pallottola che gli aveva solcato la guancia destra. Ricomposta frettolosamente la cassa fu gettata nella fossa comune.

Il Condoleo è più prolisso del Masdea, ma i due racconti tranne che per per alcuni particolari margi­nali, concordano nell’indicare co­me luogo di sepoltura la Chiesa Matrice di Pizzo.

Simile nella testimonianza dei fatti allora avvenuti è un altro manoscritto ritrovato nell’Archivio della Società Napoletana di Storia Patria,  tra le carte di Mariano D’Ayala storico e politico dell’Italia Risorgimentale ed autore di numerose opere biografiche, tra cui una memoria degli ultimi giorni di Gioacchino Murat, Una sua gita al Pizzo, pubblicata nel 1843, che gli costò la censura borbonica, nonché la perdita della cattedra di matematica e balistica presso la scuola militare Nunziatella, per aver irritato  Ferdinando II di Borbone.

Considerata la provenienza del manoscritto si può ipotizzare che esso sia stato fonte di informazioni per lo storico ottocentesco da cui trasse poi il suo lavoro.

Memoria autografa di Giuseppe Panella (4), datata 18 Ottobre 1838, essa offre una cronaca precisa e dettagliata degli ultimi momenti della vita del ex Re di Napoli, dall’arresto a Pizzo Calabro, alla prigionia nel castello, fino al momento dell’esecuzione e concorda in pieno con la testimonianza resa del canonico Masdea sulle modalità di sepoltura del Murat. Segue un’appendice in cui sono elencati i premi concessi dal restaurato sovrano Borbone a tutti coloro che avevano permesso la cattura del Generale francese, in difesa del suo Regno.  Non abbiamo notizie biografiche relative a Giuseppe Panella ma, la descrizione puntuale dei fatti narrati a ventitrè anni di distanza, lascia supporre che possa trattarsi  di un soldato o di un qualunque altro testimone oculare di quegli  avvenimenti.

 

 

 

 

Arresto dell’ex Re Gioacchino Murat seguito agli Otto Ottobre, e Condanna di Morte fatta, ed eseguita ai tredici detto mese ed Anno Milleottocentoquindici nel Castello di Pizzo.

 

Nel giorno otto del mese di Ottobre dell’Anno Milleottocentoquindici, Domenica dedicata alla Maternità di Maria S.S. di cui la Chiesa ne celebrava la festa per particolar concessione del Sommo Pontefice Pio VII fedele Regnante, essendo il mar tranquillo ed il ciel sereno, allo spuntar del sole si videro dall’alto della Città del Pizzo nel mare alla distanza di 15 miglia, circa , dal lido due Barche, una grande detta con termine nautico Bova, e l’altra men grande, che la seguiva con direzione alla Marina del Pizzo.

Infatti alle ore 15 d’Italia approdarono a terra senza ottenere il permesso della Deputazione Sanitaria, colla velocità del fulmine sbalzarono quattordici Ufficiali Militari, e ventisei Soldati, questi tutti armati di Sciabole, Cherubine, Bajonette e Pistole, ad eccetto di uno che portava la spada ben guarnita, pistole e cappello con nocca di tre colori sostenuta da circa 18 brillanti preziosi.

Questi facendo da capo, senza prendere un momento di riposo con passo veloce, seguito da tutti gli  altri s’incamminò per la città, insinuando a chi s’incontrava a dire Viva Gioacchino Re di Napoli ed arrivato nella gran piazza piena di popolo perché giorno di mercato concorso da molti paesi convicini per comprare e vendere si fermarono nel mezzo, e tutti colle Cherubine poste in mano, e sempre seguendo il loro Capo, questi facendo carezze a tutti li persuadeva a dire . Viva Gioacchino Murat, Viva il Re Gioacchino. Mi conoscete? /seguitava a dire/ Io sono il vero Re, il vero Padre Gioachino.

A tele impenzata novità, senza che un solo avesse risposto voltarono tutti dispettosi le spalle e nonostante che il numero delle persone corrispondeva a circa duemila, si rinserrarono nelle proprie case e paesani e riposte le some su le loro Giumente i forestieri partirono per le rispettive loro patrie. Rimasero solo vicino la porta della Marina i Legionari che stavansi esercitando negli esercizi Militari.

A questi accorso Murat, e postosi a fronte di essi disse così; voi siete miei  soldati, ubbiditemi. Andate sull’alti di quella Torre, levate quella Bandiera che sta sventolando. E avendo consegnato ad uno di essi un’altra Bandiera, che raccolta portava sotto un soldato della sua comitiva.

Mettete questa con le armi del vostro Re Gioacchino. E voi, disse ad un altro legionario, trovatemi pronto un cavallo e seguitemi tutti per Monteleone. A tal comando, anche i legionari senza rispondere voltarono le spalle e rientrate in città chiusero la porta e andarono a dar parte al capitano della Gendarmeria D. Gregorio Trentacapilli comandante nella Provincia di Cosenza, che al caso trovatasi al Pizzo.

A tale veduta accortosi l’esperto Generale Murat cosa avrebbe potuto seguire per simile inaspettato ammutinamento, seguito dal Generale Franceschi, dal Capitano Pernice, e da tutta la compagnia dei suoi corpi si incamminò a passo veloce per la strada che conduce in Monteleone con la scorta del giovine F. Alemanni del Pizzo da lui conosciuto per averlo servito nella Guerra di Lipsia e Danzica, e tutti a piedi.

A tale avviso uscì in piazza il capitano Trentacapilli e animò la popolazione per inseguirli alla meglio. Divise la gente accorsa sconsigliatamente per la maggior parte senza armi in tre colonne, e diresse una per lo stretto di S. Antonio, la seconda per quello di San Pancrazio e la terza, di cui egli si fece testa per la strada dei Morti battuta testè dal Guerriero Murat .

Fu tanta la velocità degli aggressori per la maggior parte inermi, o armati di bastoni e con pochi fucili , che la terza compagnia li raggiunse al passo, tra la Chiesa della Pietà ed il torrente detto della Parrera.

Allora il capitano Trencacapilli intimò la resa al Generale Murat, il quale avvedutosi che dall’alto scendeva l’altra compagnia di paesani, per non essere posto in mezzo con tutti i suoi lasciò la strada sbalzò nell’oliveto della Parrera, perché impedito anche  dalla terza contemporaneamente giunta, di non poter più spuntare per Monteleone.

Rispose Murat tenendo in mano una pistola imponendo col minaccio di ucciderlo all’anzidetto Capitano che non si accostasse per darli di mano.

Ed intanto tutti i corpi si posero su le armi. In questo breve intervallo cercò persuaderlo a farsi dalla parte sua promettendogli e danari ed onori. Ma terminò subito l’Armistizio perché urtando la parte superiore, e temendo di essere stretto nel mezzo Murat si pose a fuggire per la direzione della Marina, ma non più per la strada ma per dentro gli ulivi suddetti del luogo della Perrera, avendo passato da quella del Sig. Satirano a quella del Sig. Ochoa. E siccome il Capitano Trentacapilli ordinò ai suoi di far fuoco sopra le spalle dei fuggitivi corsi, così questi dispersi si imboscarono nelle siepi e sentieri che si paravano davanti.

Il solo Generale Murat coll’altro Franceschi, il Capitano Pernice, e due altri uffiziali continuando intrepidi la fuga, e poco curandone le spalle, cercavano sempre la direzione di Monteleone la quale fu loro impedita dal torrente Valisdea che se li parò di avanti e gl’impedì il disegno, per cui non potendone tornare più indietro perché ingrossava sempreppiù il numero dei persecutori voltò la direzione al mare sempre dirupandosi per balse e sentieri , con l’esser cascato più volte stramazzone per terra ed accompagnato da continuati tiri di fucili alle spalle.

Arrivò finalmente al fortino di detto torrente Valisdea di suo ordine fabbricato e seguito solo da tre uffiziali e abbandonato da tutti gli altri corsi come sopra nascosti, e non avendo ivi ritrovato le sue barche poiché il Comandante Barbarà accortosi dell’accaduto perché tutto potesse osservare come distintamente osservò dal posto dove erasi ancorato, temendo del cannone dei due Forti che li sovrastavano a giusto timore di calarlo a fondo e forse perché tenne per perduto il suo ex Re, lati cui ricca cassa Militare e baullo teneva a bordo, donò le vele al vento e fecesi in alto mare, pigliò di mano ad un Battello abbandonato dai pescatori in quel punto, fuggiti per timore da quanto avevano osservato, e così cercava salvarsi nel mare il Generale Murat e compagni.

Era questo picciolo in modo che il peso di quattro uffiziali si rese tanto gravoso che Murat e due compagni, con tutta la forza dei rami non potè strapparlo dall’arena e sollevarlo per dargli moto nel mare, per raggiungere col favore dello stesso al Capitano Barbarà anzidetto, che veleggiava lungi dal cannone dei Forti.

In tale stato d’inattività a poter continuare la fuga per mare fu obbligato l’infelice Generale Murat, e Uffiziali sostenere una grandine di palle che dall’apposto Fortino della Valisdea si piombavano tirate senza veruna regole da inesperta ciurma di Gente di ogni ceto, a dalla quale si vide cadere a piedi già morto il Capitano Pernice corso, ferito da una palla alla fronte tirata da un Marinaro e ferito anche il Generale Franceschi.

Allora fu, che voltata in un momento la Ruota, con evidente cognizione che Dominus ipse este Deus Sabaot idest exercitum et in manu ejus omnes fines terre.

Poiché per ipsum Reges regnant e la confessino pure in questo caso gli ostinati non credenti. Allora l’infelice ex Re Gioacchino Murat cognato dell’ex Imperatore dei Francesi, e Re d’Italia Napoleone Buonaparte cognato dell’ex Re di Spagna  e delle Indie Giuseppe Buonaparte, cognato dell’ex Re Luigi Buonaparte cognato per parte della seconda moglie dell’Imperatore suddetto dai Francesi Maria Luigia d’Austria dell’Imperatore di Alemagna cognato del Re Bavaro, dopo di aver sostenuto e superato tutta la Francia che rese vassalla ad suddetto di lui cognato, tutta la Spagna che consegnò la corona a Giuseppe:

il Gran Granducato di Berg, Cleves che ritenne per se dopo di aver comandato, e fu assoggettato le acque dolci e false di Danzica con tutte le fortezze, come benanche assoggettò la Polonia, la Prussia, la Sassonia, l’Alemagna e perfino l’Egitto, il Cairo, Alessandria non avendola risparmiato alla Prussia fino a Mosca e finalmente lasciato tutto il forte della Grande armata Francese di un milione di uomini, e con alla testa il Grande Generale Buonaparte parse rotolare nel fiume di Lipsia, ed ingrassare col sangue Francese la Sassonia egli solo vittorioso di tanta strage, e poco curando tanto furore Militare, si volle comandare tutta la Italia alla testa degli eserciti austriaci , e di tutti gli alleati che li riconobbero per Re di Napoli, e loro alleato, e sostegno, per la di cui bravura restò disfatto il grande Impero dei francesi collo stesso Imperatore Napoleone, già fatto prigioniero dagli’Inglesi, giacchè dal gran Generale Gioacchino Murat di lui cognato fu abbandonato per giuste cause.

In questo infelice termine di tante glorie, perché così dispose il  sommo Creatore Padrone, e dispositore  del tutto, fu costetto Gioacchino Murat chinar quella fronte ai di costui piedi anche i Mammalucchi Principi si prostrarono, e postasi pancia per terra all’arrimbamento: fece la tumultuosa plebbe insana della barchetta cercare per carità la vita ad un Pescatore  P. G.  a cui pose nel dito il Real prezioso Brillante che si cavò da suo, né esitò inginocchiarsi a’ piedi di un vile Mugnaio F. P. F. cercando per carità la vita che pure pagò coll’oro.

Eppoichè mai fortuna per poco come al bene così al male, come all’ingrandimento, così alla depressione. Ecco Gioacchino Murat alle ore 18 d’Italia in mano ad un branco di furiosi aggressori, al numero più di duemila persone tutte della plebaglia consideri chi legge quali dileggi non soffrì: fischi, ingiurie, sputi in faccia, strappandogli i capelli  ed il mostaccio da F.B. , colpi di fucili, bastoni e schiaffi, finanche da donnicciole e ridotto  in modo che la pietà di gente pulita F. A. accorse a ricoprirlo con nuove vesti perché lasciato lacero cencioso ed in parte ignudo.

Non furono perdonati 18 grossi brillanti di gran valore di spettanza del tesoro di Spagna che tenea al cappello, strappati da un ferraio F. S. B. che poi restarono al Capitano Trentacapilli.

In questa conformità menato nel castello fu chiuso in un ristretto ed oscuro carcere, dove gli venne negata alla prima dimanda anche una bevuta di acqua ed una sedia.

Volò la fama di un tale memorando accaduto al Pizzo, che principiò circa le ora 16 e finì tra 6. 8. del giorno 8 Ottobre 1815 e da Tropea venne al Pizzo alle due della notte il Generale Nunziante, comandante la seconda divisione delle Calabrie ed incaricato in esso dall’alta Polizia che andò ad abitare nel Castello medesimo dove ritrovatasi ristretto prigioniero l’infelice Murat che subito fece mettere in una stanza decente e trattato da prigioniero di Guerra, ma con quegli onori dovuti merito e qualità del soggetto.

Intanto furono raccolti tutti i corpi sbandati, ed al numero di 29 cogli Uffiziali suddetti furono condotti nel castello medesimo, e trattati da prigionieri di Guerra.

Nel giorno 9 si vide la città guarnita di corrispondenti truppe di fanteria e cavalleria, il castello con quattro pezzi di cannoni, e soprabbondante munizione, e per ogni capo strada della città, e parte di essa duplicate sentinelle.

Si affittarono per il momento telegrafi a dare l’avviso alla Capitale; né mancò il Generale Nunziante e l’Intendente della Provincia; aspedire per ogni giorno delle staffette alla Corte.

Martedì seguente 10 Ottobre venne da Messina una flottiglia Inglese per fortificare la Marina che si trattenne sino al giorno 13, dopo eseguita la sentenza di Morte contro il Generale Murat.

In questo stato di legale prigionia di guerra e di nobile trattamento dall’umanissimo Generale Nunziante godea il disgraziato Murat una consolante libera compagnia dei suoi Uffiziali corsi con decante servizio, e comodi anche per quanto le circostanze permettevano al vincitore alla Reale, non facendole mancare pur anche la conversazione fino a notte avanzata di ogni sera con l’intervento di Uffiziali di ogni grado, e gente pulita, tantovero che nella sera di giovedì 12 Ottobre domandò ridendo farsi la stessa indovinare quale disposizione farebbe portare di lui i Reali Alleati, dopodiché andò a letto.

Intanto alle ore sei della stessa notte giunse proveniente da Napoli Reale staffetta al prelato Sig. Generale D. Vito Nunziante, seguita da altra che arrivò alle ore dodici della mattina di venerdì giorno seguente 13 dello stesso mese con Reali Decreti firmati dal Sig. D. Luigi Medici Segretario di Stato e Ministro dell’Alta Polizia, colle quali manifestava che alle ore nove del giorno venti Ottobre, per notizia Telegrafica si ebbe notizia in Napoli, trovarsi al Pizzo arrestato Gioacchino Murat, con circa 15 o venti altri compagni d’armi.

Che alle ore 9 ¼  di ordine del Re si aduna il Consiglio di Stato per tale causa, che alle ore 9 ½  fu decretato spedirsi prima e seconda staffetta dopo due ore, onde sul momento dell’arrivo al Pizzo, il Sig. Generale Nunziante avesse nel castello medesimo, unito un consiglio di Guerra, ossia Commissione Militare per giudicare Gioacchino Murat, e che dalla pubblicazione alla esecuzione della sentenza si frapponga solo un quarto di ora per gli atti di religione.

E trovandosi nella di lui compagnia soldati, o uffiziali Napoletani e Siciliani dovessero essere giudicati nella stessa forma ed eseguita ugualmente la sentenza, sotto la responsabilità di essi incaricati.

A chi si diedero ordini pressanti di affrettarsi a darne l’avvio alla esecuzione sul momento stesso con Telegrafo, e col ritorno delle due Staffette con Barca, e di qualunque altra maniera possibile.

Tanto contiene l’ordine Reale letto da chi foriva. Sul ricevere tal ordine il Sig. Generale Nunziante ordinò la  Commissione Militare composta dal Sig. D. Giuseppe Fasulo, Cavaliere del Real Ordine delle Due Sicilie fatto da Murat, Barone Sig. D.Raffaele Scarfano pur Cavaliere delle Due Sicilie creato da Murat, Sig. D. Settario Napoli Commendatore del Real Ordine di San Ferdinando, Sig. D. Matteo Cannillli, Sig. De Matteo de Urongi, Sig. D. Franc.Paolo Matteo Giudici, S. Francesco Troio Resatore e Sig. D. Giovanni la Camera Regio Procuratore Criminale presso la Gran Corte Criminale di Calabria Ultra, seconda residente in Monteleone  fatto da Murat, e Sig. D. Francesco Paparossi Segretario, i quali riuniti tutti nel castello del Pizzo dalle ore dodici della mattina di Venerdì 13 Ottobre cominciarono il costituto, ed interrogatori, al giudicando Gioacchino Murat, e firmarono contro di lui il Decreto di morte alle ore ventidue e un quarto di detto giorno che fu  eseguito alle ore ventitrè nel castello medesimo con otto scariche di fucili al petto intrepido del Generale guerriero.

La sentenza di morte fu intimata e letta a Gioacchino Murat nella stessa ora , ma non fu manifestato il momento della esecuzione, onde si pose a scrivere frettolosamente alla moglie del tenor seguente.

 

Mia cara Carolina

L’ora fatale è stata eseguita con non poche lagrime. Io cesso di vivere in qualche supplizio: tu non avrai più sposo ed i miei figli non avranno più padre. Sovvenitevi di me. Non bandite la mia memoria. Io morirò innocente, la mia vita mi è stata tolta per un giudizio ingiusto. Addio mio Achille. Addio mia Letizia. Addio mio Luciano. Addio mia Eluisa. Mostratevi sempre degni di me. Io vi lascio sopra una terra e Regno in mezzo di innumerevoli nemici.

State sempre uniti. Mostratevi superiori alle atrocità: siate ritenuti. Prestatevi più che voi siete stati. Iddio vi benedica.

Non maledite giammai la mia memoria e sovvenitevi il gran dolore che io provo al mio momento che è quello di morire lontano dai miei figli: lontano dalla mia amica, e di non avere alcun amico che chiuder mi possa le palpebre. Addio mia Carolina. Addio miei figli. Ricevetevi la mia paterna benedizione, la mia tenera lacrima, i miei ultimi abbracci. Addio, Addio. Voi non dimenticherete mail il vostro disgraziato Padre Gioacchino.

Al Pizzo li 13 Ottobre 1815.

 

Il S. Generale Nunziante uomo assai religioso e pietoso dell’aver unito la Commissione Militare ordinatale, non potendo aiutare e salvare la vita temporale di Gioacchino Murat, pensò alla di lui eterna salute spirituale, e perciò credendo non così lungo il giudizio invitò alle ore 14 della mattina nel castello il Sig. Canonico Decano D. Tommasantonio Masolea luogotenente del Vescovo di Mileto Monsignor Minutolo, il quale dimorò fino alle ore  22 e mezza chiuso in una stanza di orazione, quando chiamato dal Capitano incaricato della esecuzione entrato nella stanza di Murat lo ritrovò nell’atto che firmava l’antecedente lettera.

Egli si alzò e benignamente siede ad ascoltare il sacerdote che gli domandò se avesse conosciuto, in occasione di avergli domandato in grazia due anni dietro la costruzione della Chiesa maggiore del Pizzo sotto il nome di S. Giorgio Martire, ed egli sovvenutosi gli rispose di si, e che gli aveva dato mille ducati per l’effetto.

Allora il Ministro di Gesù Cristo prese anima e fidato nella infinita misericordia di Dio e nel sangue preziosissimo del Redentore gli parlò così.

Altra grazia, Signore, sono venuto adesso a domandarvi di maggior valore egli disse, ed egli replicò; ma io in questo stato quale grazia posso farvi? Ah! Signore, ripigliò il Sacerdote, dovete confessarvi.

L’accorto Principe temendo di confessione giudiziaria diffamante voltò le spalle, e con risentimento disse: Non ho che confessare, perché non ho mancato avanti a Dio. Non si penasse il Ministro di Gesù Cristo (parola illeggibile) vieppiù incoraggiato di lui, che infirma Mundi elegit Deus ut forzia confundat, seguendolo gli replicò – Signore io non vi parlo di Confessione giudiziaria, ma di confessione Sacramentale per riconciliarvi con Dio alla di cui presenza dovete comparire fra il termine di un breve quarto d’ora.

Ah! si replicò,  allora son pronto, come però faremo in sì breve tempo? Sono io per voi non temete. Andava per inginocchiarsi, ma il confessore gli donò una sedia che sola era in quella stanza, si sedè cominciò, ma poi subito si alzò in piedi per venerazione al Ministro di Dio.

Oh! Chi si fosse trovato presente per vedere le lacrime, sentire la prontezza alle risposte, la contrizione alla promessa di mai più peccare, l’umiltà nel soddisfare la penitenza.

E più bisogna interrompere per poco  a rossore dei non credenti, e che tutti attribuiscono al caso. Se la Provvidenza avesse risposto a Gioacchino Murat, che voleva salvo, come si spera nell’anima, la sua confessione ed agonia, ad un solo quarto di ora, come quella del buon ladrone fu la voce, quali sforzi non avrebbe fatto l’Inferno per ricordargli dove muore. E quali affronti ricevè al Pizzo?

Quale vendetta avrebbe potuto fare. Ed intanto niente di questo  e bada solo al pentimento alla rassegnazione del Divin  volere, da lui confessa ricevere la sentenza. E finalmente considerar devono i riflessivi, che dopo averlo salvato dalla morte in tante campagne in tanti mari e fiumi, raccolse le sue ceneri in quella chiesa da lui beneficata, da quella gli vennero dati gli ultimi Sagramenti  ed aiuti spirituali per salvargli l’anima.

Terminata la sacramentale confessione, e ricevuta pur anche l’assoluzione Papale in articolo di morte concessa da Benedetto Papa XIV, andiamo disse il buon penitente ad eseguire la volontà di Dio.

Il Sacerdote che forse conoscea dover fare il penitente a norma delle regole della Chiesa qualche altra dichiarazione scritta, e perché gli mancava il tempo, non più potendosi prolungare oltre la legge che lo respinse. Fermate gli disse fermate, Signore voi dovete scrivere solo un rigo su di questa carta, e dire:

Io Gioacchino Murat sono Cristiano Apostolico Romano, gli rispose son pronto e prese la penna e fatto. Io: si fermò e disse: ma voi Padre mi volete così svergognare dopo morto – No replicò il sacerdote anzi intendo smentire quei libertini che celerò nome servivansi per mascherare la di loro irreligione.

Tanto battè, e continuò a scrivere. Si deve vivere e morire da buon cristiano Gioacchino Murat. Andiamo replicò nuovamente a fare la volontà di Dio. Arrivato al luogo della morte, voltato agli astanti. Non credete disse che io d’altri riceva la morte che dalle mani di Dio, solo mi dispiace il modo.

Ditemi Sig, Uffiziali dove mi devo situare, ed avendosi posto in un scatto si slacciò la veste e aperto con le mani il petto. Tirate disse o miei soldati e non temete. Allora replicò l’Uffiziale voltate le spalle –  A tale avviso tornò indietro, e con un sorriso, con le mani ed occhi alzati al cielo – Credete disse che io potessi far mal animo contro di questi infelici che devono fare ciò che non vorrebbero e contro di chicchesia, siete in abbaglio perché tutto viene ordinato e disposto.

Torna al posto si denuda il petto e di nuovo disse Tirate; Grida il Sacerdote Credo in Dio Padre Onnipotente. Più non potè dire, e fu eseguita la Sentenza.

Il suo cadavere riposto in un baule vestito in taffità nero fu sepolto nella Chiesa Madrice  sotto il titolo di San Giorgio Martire del Pizzo, dove nel giorno seguente dallo stesso padre assistente fu cantata una solenne Messa di Requie.

E così terminò la vita del gran Generale Gioacchino Murat.

 

Fatto da Giuseppe Panella Minor li 18 Ottobre 1838

 

 

Appendice alla cronaca riportata nello stesso manoscritto

 

Premi conceduti a molti Individui della Fedelissima Città del Pizzo per l’arresto del fu Gioacchino Murat.

Ferdinando I per la Grazia di Dio, Re del Regno delle Due Sicilie.

Visto il  nostro Real Decreto dei 18 Ottobre passato anno 1815, col quale dopo di aver premiata la Fedelissima città del Pizzo per aver preservato il Regno dalla rivolta e dalla Guerra Civile che Gioacchino Murat coi suoi seguaci aveva cercato di eccitare, ci riserbiamo nell’Articolo 1° di dare particolari segni della nostra Reale soddisfazione agli individui che si erano particolarmente distinti in quella circostanza, in seguito delle notizie sicure che attendevano dalla autorità superiori.

Trovandoci oggi nel grado di adempiere sugli informi che ci sono stati presentati, la nostra Real promessa.

Visto il rapporto del nostro Segretario di Stato Ministro di Grazia e Giustizia

Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue.

Articolo Primo. Conferiamo al Maresciallo di Campo Nunziante il titolo di Marchese per se e suoi discendenti ed una penzione di annui ducati mille e cinquecento sua vita durante, concediamo al Colonnello D. Gragorio Trentacapilli la dignità di Cavaliere Commendatore del Re Ordine di S. Ferdinando, e del merito, ed una penzione vitalizia di annui ducati mille.

Nominiamo il Barone D. Cesare Melecrinis, D. Raffaele Trentacapilli e D. Giorgio Pellegrino Cavalieri di Grazia del Real Ordine Costantiniano, e concediamo a ciascuno di essi una penzione vitalizia di annui ducati trecento.

Nominiamo del pari Cavalieri di grazia dell’Ordine Reale Costantiniano D. Francesco Alcalà, D. Giovanni La Camera, Procurator Regio presso il Tribunale della Corte Criminale in Monteleone.

Conferiamo il beneficio di Regio patronato sotto il titolo dell’Annunciata di Bagaldi al Canonico Giovannibattista Melecrinis, nominandolo anche cavaliere di grazia del Real Ordine Costantiniano, ed il beneficio di Regio Patronato sotto il titolo dello Spirito Santo di Biace al canonico D.Antonio Iannaci.

Concediamo una penzione vitalizia di annui ducati centocinquanta  a D. Giuseppe Pirrone, una penzione di annui ducati centoventi vitalizia a Foca Callipo, una penzione vitalizia di annui ducati cento per ciascheduno a D.Francesco Alemanni a D. Francesco Salomone a D. Antonio Dannaci, ed ai fratelli Rocco Domenico e Fortunato Sardanelli una penzione di annui ducati settantadue vitalizia per ciascheduno, a Mariano Polia, Giuseppe Callido, Filippo Latessa, Domenico di Leo, Nicola Vinci, Gennaro Ferolete, Francescantonio Perri di Nicola, Emanuele Tozzo, Antonio Favella, Aggrazio Silvano,Pasquale Liotti, Diego, Vincenzo e Geronima Ventura.

Concediamo una piazza franca nel Real Liceo di Reggio ad un figlio di De Maurizio De Santis.

E finalmente concediamo al canonico Iannaci a D. Giuseppe Pirrone, D. Francesco Alemanni, D.Francesco Salomone, D. Antonio Iannaci, Foca Callido, ai Fratelli Rocco Domenico Fortunato Sardanelli, a Mariano Polia, Giuseppe Callipo, Filippo Latessa, Domenico di Leo, Nicola Vinci, Gennaro Ferolete, Domenico Feroteta, Francescantonio Perri di Nicola, Emanuele Tozzo, Antonio Favella, Aggrazio Silvano, Pasquale Liotti, Diego, Vincenzo, e Geronimo Ventura di poter portare alla bottoniera con fettuccia di color roso Borbonico una medaglia di argento simile a quella di oro coniata pel Sindaco, Eletti  a Decurioni  pro tempore del Pizzo.

Tutte le penzioni concedute nell’Articolo precedente si intendono cominciate a decorrere dal giorno otto Ottobre dello scorso anno 1815.

I nostri segretari di Stato, Ministri di Grazia e Giustizia, e degli affari Ecclesiastici delle Finanze e dell’Interno ed il nostro Segretario di Stato di Casa Reale ognuno per la parte che loro riguarda sono incaricati della esecuzione del presente Decreto – Firmato – Ferdinando – Da parte del Re – Il Ministro Segretario di Stato

 

Firmato Tommaso di Somma.

 

NOTE

1   T.A. Masdea, L’arresto e il supplizio di Gioacchino Murat, a cura di G. Romano, Pavia, tip. f.lli Fusi, 1889.

2  G. Gasparri, E. Capialbi, Murat al Pizzo: la fine di un re (testimonianze inedite), Monteleone di Calabria, tip. Francesco Passafaro, 1894.

3 Società Napoletana di Storia Patria. Sezione Manoscritti  ed Autografi. Fondo  Mariano D’Ayala. Manoscritto numerato da pag. 66 a 80. Carte in ordinamento

4 La firma dell’autore si trova a pag. 77 del manoscritto

 

Il presente articolo è già stato pubblicato dall’autrice per la Società Napoletana di Storia Patria  in Archivio Storico per le province napoletane. Vol. CXXIX, Napoli, 2011

fonte:www.nuovomonitorenapoletano.it

A Laterza tornano le ceramiche più famose del mondo

 

 

Laterza è un paese di 15.000 abitanti nel cuore della Puglia, dove si producono splendide ceramiche. Agli amatori degli oggetti fatti con questa antica lavorazione non serve la specificazione perché Laterza è la patria della ceramica, le sue maioliche sono conosciute in tutto il mondo.

La produzione di ceramica laertina ha raggiunto il massimo splendore nel 1600 e 1700 quando secondo il catasto onciario si contavano ben 45 fornaci e 48 botteghe attive nella realizzazione di costose e pregiate maioliche che rifornivano le commesse borboniche e vaticane. Questi nobili “pezzi” ad oggi sono l’orgoglio di molti musei, dal Victoria and Abert Museun di Londra all’Ermitage di San Pietroburgo e poi Berlino, Limonges, Vienna fino a Faenza, Matera, Cile, Spagna, Brasile. Il nome di Laterza ha viaggiato in tutto il mondo e si è imposto nelle più importanti collezioni. Le sue maioliche hanno conosciuto luoghi lontani e oggi, dopo lunghissimi anni, sono di nuovo a casa.

Il merito è di Gianfranco Lopane, sindaco di Laterza, che ha raccolto e radunato istituzioni pubbliche e private, affiancato anche da appassionati cittadini e studiosi, per un progetto che oggi è diventato un museo, il Muma, il Museo delle Maioliche di Laterza, riscattando un intero territorio orfano della sua più grande eredità. E così la maiolica laertina della prestigiosa collezione Tondolo, dai cromatismi turchini su fondo bianco è stata accolta e custodita nel museo realizzato all’interno del Palazzo Marchesale.

La ceramica è tornata a casa, accolta come un figliol prodigo, tra la gioia di tutti gli abitanti del piccolo paese, fieri di vedere da vicino gli oggetti che li hanno resi famosi in tutto il mondo. Così ancora una volta il da un tempo antico arriva un prezioso tesoro che può creare economia nel presente.

Il presepe vince su albero e Babbo Natale

Un’indagine Doxa interroga gli italiani su quale sia il vero simbolo del Natale. Per gran parte degli italiani è il presepe. Che vince su albero e Babbo Natale. Per fortuna, significativo anche il valore dato alla Messa di Mezzanotte.

 

Mentre imperversa la battaglia ideologica sul presepe e nelle scuole statali e persino cattoliche fanno a gara a far sfoggio di laicità abolendo da questa festività quelli che sono i suoi tradizionali simboli religiosi la Doxa interroga gli italiani su quale sia secondo loro il vero simbolo del Natale. Ne emerge un dato che è forse il risultato delle polemiche: per 1 italiano su 2 (55%) il vero simbolo di questa festa è il Presepe che supera di gran lunga l’Albero di Natale (21%). È quanto emerge da una recente indagine DOXA/Magico Paese di Natale di Govone intitolata Gli Italiani e la magia del Natale dove troviamo anche il fatto che per il 35% degli italiani il momento più significativo della festa è identificato nella messa di mezzanotte.

Se da una parte vince la spiritualità, dall’altra ci sono 3 italiani su 10 (27%) che pensano che questa festa sia prettamente un evento commerciale. Ma rispetto al passato pongono più attenzione al portafoglio e alle strade dello shopping firmato preferiscono i tradizionali mercatini di Natale (frequentati da quasi 12 milioni di italiani per comprare doni per i propri familiari e amici per una spesa complessiva di 125 euro pro capite). I dati dell’indagine sottolineano infatti che l«8% degli italiani – oltre 4 milioni di persone, soprattutto giovani – considerano i mercatini il simbolo di questa festa, superando d’un soffio un’icona gastronomica come il panettone (6%) e appaiandosi allo stesso Babbo Natale, simbolo insostituibile della festa per solo il 9% del campione.

Sull’atmosfera che circonda il Natale, gli intervistati non hanno dubbi: per il 69%  il Natale è la festa per eccellenza e in questa speciale classifica stacca di molto sia la Pasqua (17%) che Ferragosto (13%). Il Natale si conferma “la vera festa della famiglia” (52%): un “momento per ritrovarsi con i propri cari in un’epoca in cui è sempre più difficile farlo”. Mentre per il 15% è una “parentesi di serenità nel difficile contesto odierno dominato dall’incertezza”.

Orsola Vetri

 

E’ di Reggio il più grande pasticcere d’Italia Caridi ha vinto la finale della trasmissione Rai

A 27 anni è diventato il più grande pasticciere d’Italia conquistando il titolo nel corso della popolare trasmissione televisiva andata in onda su Rai 2 e confermando la tradizione di famiglia

E' di Reggio il più grande pasticcere d'ItaliaCaridi ha vinto la finale della trasmissione Rai

Sebastiano Caridi

REGGIO CALABRIA – È il reggino Sebastiano Caridi, 27 anni, il più grande pasticcere d’Italia. Il giovane, che attualmente vive e lavora a Faenza, è stato incoronato il più bravo pasticcere nella finale della omonima trasmissione televisiva andata ieri sera in onda su Raidue. In finale ha battuto Lorenzo Puca, di Pescara, di un anno più giovane. Sebastiano, figlio d’arte (il padre Paolo è molto noto in Calabria) ha iniziato ben presto a lavorare nel laboratorio di famiglia, ma si è poi trasferito a Faenza (Ravenna) per crescere professionalmente.

Sin da giovanissimo, come ricordato nella biografia resa nota dai produttori del programma di Raidue, giunto quest’anno alla seconda edizione, ha seguito vari corsi di pasticceria tenuti dai più grandi maestri italiani, tra cui Luigi Biasetto e Roberto Rinaldini, e lavora per 4 anni con il cioccolatiere Stefano Laghi.

La creazione dolciaria con la quale Sebastiano si è aggiudicato il duello finale contro Lorenzo Puca è stata battezzata dallo stesso autore “Rivelazione”.

Proprio ieri, il presidente del Consiglio regionale calabrese, Nicola Irto, all’indomani dell’iniziativa promossa da Confartigianato Reggio Calabria e dall’Associazione provinciale pasticceri artigianali reggini, si era detto convinto che «le produzioni dei nostri pasticceri artigianali rappresentano un’eccellenza nel settore enogastronomico tradizionale da valorizzare e sostenere».

E Irto un pensiero lo aveva dedicato proprio al concorrente in lizza per la corona di pasticcere più bravo: «La pasticceria reggina, certamente sensibile agli influssi delle altre tradizioni del Mezzogiorno d’Italia, ha il pregio di essere frutto di un’elaborazione originale in cui i sapori tipici si sposano all’innovazione, la riscoperta delle radici si unisce all’originalità. E non possiamo non ricordare – aveva detto il presidente del Consiglio regionale – come questa categoria sia oggi al centro dell’attenzione mediatica nazionale, grazie al talento di Sebastiano Caridi, figlio di uno storico artigiano reggino…»

 

Fonte: www.calabrianews.info

Reggio Calabria si è svegliata sotto una coltre di polvere nera proveniente dalla dirimpettaia Sicilia

Stamattina la città di Reggio Calabria  si è svegliata  sotto una coltre di polvere nera proveniente dalla dirimpettaia Sicilia, dove l’Etna continua a produrre materiale derivante dalla vivace attività stromboliana delle ultime settimane. A Reggio Calabria, così come a Messina, questa nube di polvere lavica sta causando una serie di disagi soprattutto alle persone, che risentono di seri fastidi agli occhi e alla respirazione. La polvere infatti provoca bruciore intenso a contatto con il bulbo oculare e con le mucose.macchina La coltre nera si è depositata su ogni superficie, dai davanzali ai marciapiedi, dalle automobili alle tende per esterno. Camminare all’aria aperta si è rivelato davvero difficile per molti. In realtà, come spiegatoci da uno specialista pneumologo,  la cenere vulcanica non è velenosa, ma la sua inalazione può causare problemi a coloro il cui sistema respiratorio è già compromesso a causa di malattie quali l’asma o l’enfisema. La composizione delle ceneri, molto abrasiva, può causare irritazioni e graffi agli occhi. Coloro che indossano lenti a contatto dovrebbero mettere gli occhiali in occasione di eventi del genere. Inoltre la combinazione di ceneri vulcaniche con l’umidità dell’aria può portare alla formazione di una sostanza simile al cemento che intacca i polmoni. Gli esperti consigliano, se possibile, di utilizzare le mascherine protettive in vendita in farmacia.

Marina Malara

fonte:www.strill.it

 

 

I trucchi nascosti di whatsapp che nessuno ti dira mai….

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Allora andiamo al sodo:ecco a voi i trucchetti che nessuno ti dira mai
1. disattivare le spunte blu:
Android: se utilizzate un android allora per voi sara facile,Per disattivare la doppia spunta blu dovete scaricare ed installare dal sito ufficiale di whatsapp la versione 2.11.4444, dopo sarà sufficiente andare in Impostazioni -> Account -> Cliccare su “privacy” -> Deselezionare “read receipts”. e il gioco e fatto

2. per creare un collegamento per un contatto: sicuramente ci sono persone con cui chattate più frequentemente.: allora non dovete far altro che andare sulla lista contatti, tenete premuto sul nome de contatto in questione, cliccate su “crea shortcut”.
Un trucchetto alla portata di tutti che può rendere le conversazioni più rapide e comode.

3. Backup e ripristino dei messaggi: whatsapp si occupa automaticamente di fare backup dei messaggi, ma se volete stare più tranquilli potete farlo da soli.per salvare il vostro backup in un pc basta collecare il cellulare ed andare in [Memoria Interna > Whatsapp > Database] e cercare l’ultimo backup che sarà soprannominato in tal modo: msgstore-2014-02-7.db.crypt#sthash.UwAmfEsG.dpuf ed ecco qui come fare

4. ecco uno dei trucchi piu richiesti per Proteggere/criptare la chat di whatsapp: per i maniaci della privacy esiste un metodo per proteggere la propria chat da possibili guardoni. Tramite questa app e necessario inserire un codice per il quale whatsapp sarà sbloccato.
IOS: Codice whatsapp al solo costo di 1,79€
per Android invece: whatsapp lock (gratuito nello store) o 360 Security (che oltre ad bloccare le app, permette di fare pulizia dei dati inutili e scansioni contro i virus rompiballe)

fonte:clicca qui<>

Sparatoria in California, 14 morti Uccisi due killer, uno era una donna

 

Il commando è entrato in azione a San Bernardino in un centro per disabili. Diciotto i feriti. Scontro a fuoco con la polizia durante l’inseguimento degli aggressori. Non viene esclusa la pista del terrorismo

Sono stati uccisi due dei tre killer responsabili della strage al centro per disabili di San Bernardino, in California, di cui ancora non si conosce il movente ma che secondo l’Fbi potrebbe trattarsi di terrorismo interno. I due killer, un uomo e una donna, “pesantemente armati”, hanno aperto il fuoco in una sala del centro uccidendo 14 persone e ferendone 18. Il commando ha colpito mentre era in corso la festa di Natale.

articolo

Identificati due killer – Uno dei killer si chiama Syed Farook, cittadino americano. Lo riferisce la Nbc che cita diverse fonti della polizia. L’altro assalitore sarebbe il fratello di Farook, mentre la donna non è stata identificata. Secondo il suo profilo Linkedin, Farook era un impiegato del governo federale. Nel 2003, si è diplomato alla Sierra High School e più recentemente ha studiato finanza alla California State University Fullerton, fino al 2013. Il suo profilo social rivela inoltre che era sposato e aveva un figlio piccolo.

Il padre di Farook: “Era musulmano” – Il padre di Farook si è detto scioccato del possibile coinvolgimento del figlio. “Non mi è stato detto nulla ancora”, ha detto al New York Daily News. “Era molto religioso. Andava al lavoro, tornava, pregava. E’ un musulmano”, ha aggiunto.

Trovato esplosivo all’interno dell’edificio – Le forze dell’ordine hanno trovato esplosivo all’interno dell’edificio di San Bernardino. Lo riferisce il capo della polizia locale, lo sceriffo Jarrod Burguan. Sul posto è giunta la squadra degli artificieri.

Sparatoria durante la festa di Natale – Al momento dell’irruzione dei killer nei locali dell’Inland Regional Center, specializzato in servizi sociali e nella cura di bimbi autistici, si stava svolgendo una festa di Natale per i dipendenti del centro. “E’ stato un attacco in stile militare”, hanno spiegato alcune fonti investigative. Il capo della polizia locale ha spiegato come i tre killer non abbiano improvvisato il raid nel centro ma siano giunti “preparati”, ben consapevoli di dove e come colpire.

Chiusi scuole ed edifici – Tutte le scuole e gli edifici nel distretto di San Bernardino sono stati posti in “lockdown”, cioè nessuno può entrare o uscire. Lo riferiscono le autorità dello stesso distretto.

Polizia: “Terrorismo interno” – Nessuna pista viene al momento esclusa, nemmeno quella del “terrorismo interno”, ha detto l’Fbi che sta indagando. “Non conosciamo ancora il movente”, ha spiegato a caldo anche il presidente americano Barack Obama, immediatamente informato di quanto stava accadendo a San Bernardino. Obama: “Basta sparatorie” – “Basta con le sparatorie. Il Congresso deve fare di più prevenire la violenza delle armi da fuoco”, è stata la sua prima reazione in un’intervista alla Cbs, invocando “misure bipartisan” per garantire la sicurezza dei cittadini americani.

Stragi senza fine – Dall’inizio del 2015 in America è stata la 355esima sparatoria. “Sembra che oramai abbiamo accettato questo tipo di incidenti. Ma questa – è lo sfogo di Obama – non può diventare la normalità”.

I tre killer di San Bernardino sarebbero dei bianchi. Indossavano maschere e giubbotti antiproiettile – raccontano i testimoni – e vestivano abiti militari. Erano pesantemente armati e avevano con loro alcune bombe artigianali. “Un uomo armato è entrato nel centro e ha iniziato a sparare. Ho visto corpi a terra”, ha raccontato una donna che è riuscita a sfuggire alla sparatoria, salvandosi solo perché si è chiusa a chiave dentro uno degli uffici.

Media: “Allerta in un centro commerciale” – Un centro commerciale, a 10 chilometri dal consultorio dove è avvenuto il primo attacco, è stato evacuato per un’allerta. Lo rendono noto i media locali.

La sparatoria in Colorado – Il nuovo episodio di violenza arriva a meno di una settimana dal folle gesto di un uomo bianco in Colorado che in una clinica abortista ha ucciso tre persone, tra cui un poliziotto. Anche in questo caso i killer sarebbero dei bianchi.

Fonte:www.tgcom24.mediaset.it

CHIESETTA DI PIEDIGROTTA (UN POSTO DA VISITARE)

Chiesetta di Piedigrotta a Pizzo Calabro

Al centro dello splendido scenario del Golfo di Sant’Eufemia, nel territorio napitino, vi è una piccola grotta che offre al visitatore uno spettacolo unico nel suo genere.

La Chiesetta di Piedigrotta tra mito e leggenda, è il primo monumento in Calabria per continuità e numero di presenze ogni anno, e già da ben 3 anni supera di molto i famosi Bronzi di Riace. Arte, religione, antropologia e cultura, un mix perfetto che ha permesso di rendere nel tempo “A Madonneja” uno dei luoghi più belli e amati in tutto il mondo.

Dalla statale 522, scendendo per la scali¬nata in granito locale ci si incammina lungo un sentiero che costeggia il meraviglioso Basso Tirreno. Lungo il breve tratto si posso¬no ammirare le due sponde del Golfo ed una scogliera arenacea che non conosce eguali. La risacca del mare cristallino accompagna il visitatore giù alla chiesetta, “preparandolo” allo scenario che solo questo posto sa offrire. Dalla continua e nuda roccia piena di conchiglie, si passa ad una serie di profondità, bene articolate e complesse, con vari gruppi di statue, affreschi e chiaroscuri, che creano all’interno della grotta atmosfere cangianti e mistiche, che variano in base all’inclinazione dei raggi solari che filtrano all’interno grazie a delle “finestre-aperture” che sembrano ben studiate dai bravissimi e devoti scalpellini.

Tra Storia e Leggenda
Quando finisce la prima ed inizia la seconda… quello che si narra, che viene tramandato da centi­naia di anni e che, secondo i reperti risulta veritie­ro, è la storia del nubifragio avvenuto verso la metà del `600. Durante il viaggio di ritorno, lungo le co­ste napitine, un veliero con equipaggio napoleta­no, fu sorpreso e travolto da una violenta tempesta. Il comandante, che teneva nella propria cabina il quadro della Madonna di Piedigrotta, insieme con i suoi uomini fece un voto alla Vergine. In caso di salvezza, i superstiti avrebbero eretto una cappella al quadro miracoloso. Il veliero andò distrutto con­tro la scogliera di Pizzo, il carico, presumibilmente di corallo, perso negli abissi, ma tutto l’equipaggio col suo comandante toccarono riva sani e salvi, ed insieme con loro sulla spiaggetta, dove ora sorge la chiesetta, approdarono anche il quadro dell’Effige Sacra e la campana di bordo datata 1632. Gli scalpellini del luogo, che si recavano in quel­la zona per tagliare i blocchi non di “tufo”, ma di calcarinite calcirudite organogena (che servivano nel campo edilizio), posero il quadro in una grot­ta già esistente (quella dove oggi c’è il bar). Quel­la stessa grotta che loro usavano solitamente per ripararsi in caso di pioggia.

Si esclude, come ripor­tato in molti testi, la presenza dei pescatori locali, in quanto nella zona interessata (che non era colle­gata con nessuna strada carrozzabile col paese, ma solo con un piccolo e tortuoso sentiero), erano pre­senti solo le cave di calcarinite e non un rifugio o spiaggetta di pescatori. I primi in questo campo a “colonizzare” la zona ad un centinaio di metri più avanti dalla chiesetta, arrivarono solo verso il 1952, dando il nome alla spiaggia adiacente a quella di Piedigrotta, detta ancora oggi “spiaggia Malfarà”, che prese il nome dal primo pescatore che vi si insediò, appunto Bruno Malferà, al quale storpiarono il cognome in Malfarà. Si narra che altre due mareggiate successive, rubarono il quadro miracoloso da dove era stato sistemato, adagiandolo nel punto esatto in cui fu rinvenuto la pri-ma volta dopo il famoso naufragio.

Gli scalpellini capirono il volere della Madonna ed esattamente di fronte al rinvenimento nella nuda e liscia roccia cominciarono ad ingrandire una grotta naturale ivi esistente e conosciuta, con apertura più in alto. Scavarono a colpi di piccone la nuova residenza dell’Effige Sacra, ampliandola di volta in volta in caso di pioggia, dall’abside (antro naturale) verso il mare. Infatti, non potendo lavorare alle cave col brutto tempo, gli scalpellini passavano le loro ore picconando all’interno di Piedigrotta per ingrandire sempre di più la chiesa. Ciò viene testimoniato anche dai segni delle picconate, diversi di modo e periodo storico.

 

fonte:calabria.jblas