A NAPOLI SI DIFFUSE UNO STRANO OGGETTO CHE FECE SORRIDERE MEZZA EUROPA: IL BIDET

By | 14 gennaio 2016

SI DIFFUSE UNO STRANO OGGETTO DEL DESIDERIO CHE FECE SORRIDERE MEZZA EUROPA: IL BIDET

Il bidet ha sempre avuto una cert’aria di sconvenienza continentale, e non è mai stato accettato del tutto.

Qui, non si scappa. Il comma 3 dell’articolo 7 del Decreto ministeriale sulla sanità del 5 luglio 1975, lo afferma chiaramente: «Per ciascun alloggio, almeno una stanza da bagno deve essere dotata dei seguenti impianti igienici: vaso, bidet, vasca da bagno o doccia, lavabo». Ma, qui, siamo in Italia, e l’installazione del bidet è una delle condizioni per ottenere l’idoneità igienico-sanitaria, propedeutica alla certificazione di abitabilità di un appartamento. Qui, è un obbligo, e non dobbiamo farci prendere per il… naso: nonostante la parola suoni alla francese, andate a cercarlo, il bidet, nell’elegantissima Francia di Coco Chanel e di Yves Saint Laurent. E non è una questione di mancanza di spazi, sarebbe troppo facile: anche nelle dimore più lussuose e snob, negli alberghi a otto stelle con bagni da enne metri quadrati, in case con cucine faraoniche e cantinole grandi come piazze d’armi, quello strano aggeggio, basso, di solito in ceramica e accanto alla tazza sanitaria che omologa belli e brutti, è quasi totalmente misconosciuto. L’uso del bidet, e questa è la prima verità rivelata, è una questione culturale. In Germania, il giornalista tedesco Nikola Obermann ha messo tutti in guardia, lo strano oggetto del desiderio è in estinzione, in Francia lo adoperano per il pedicure o come piccola vasca per mettere a mollo i vestiti, in Inghilterra per mantenere le bottiglie di birra in fresco: «Se ne avete uno, conservatelo. Presto sarà un pezzo da museo…» (N. Obermann, das Bidet, in «Karambolage» del 29 novembre 2009).

Il nome e l’accento dell’idro-sanitario (i dizionari schedano il bidet proprio in questo modo) farebbero intendere palesemente le sue origini francesi. Ma l’oscuro strumento, che violando ogni privacy guarda tutti dal basso verso l’alto, fu veramente inventato da un cittadino di Francia? E qual è la vera storia del bidet? Come mai i paesi europei lo condannarono, e poi l’oscena invenzione trovò la sua gloria proprio a Napoli, con i Borbone?

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Se ne parlò la prima volta nel 1726, la versione ufficiale, almeno, così racconta. Il primo documento che attesterebbe l’esistenza del bidet è la memoria di un nobile che fu anche ministro degli Esteri, René Louis de Voyer marchese d’Argenson, il quale frequentava le stanze private della florida ventottenne adorata da Voltaire, madame de Prie (Jeanne-Agnès Berthelot de Pléneuf), ex amante del Reggente di Francia sotto Luigi XV, il duca Luigi-Enrico di Borbone. Un giorno, il marchese d’Argenson entrò nel gabinetto di madame de Prie sorprendendola scosciata, a cavalcioni su un bidet, all’epoca quasi un arnese esotico, molto più ammiccante e pruriginoso di un gingillo erotico. Il marchese strabuzzò gli occhi, a disagio, con lo sguardo puntato sulla pelle nuda della donna cercò di ritirarsi, tuttavia la ragazza lo invitò a rimanere, maliziosamente. «Ne seguì una situazione imbarazzante quanto piccante. “Permettete, madame”, disse il marchese, “che io possa inaugurare questa vostra pulizia”. Ed effettivamente d’Argenson, preso da subitaneo trasporto, abbracciò le natiche di Madame de Prie» (L. Spadanuda, Storia del bidet: un grande contenitore ideologico, 1998).

In quel periodo, il bidet era come quello di oggi, il tempo e il design non lo hanno ammuffito, casomai hanno aggiunto al prototipo iniziale acqua corrente, la rubinetteria per miscelare caldo e freddo, un getto a spruzzo al centro della vasca per irrorare le parti bisognose (in disuso, per lo più) o una doccetta virtuosa, ma, nella sostanza, è come allora: un piccolo tino di forma ovale appoggiato sopra uno scheletro di legno con tre o quattro piedini terminali a sostegno. La preziosità dell’oggetto, che in modo casto inizialmente chiamavano “sedia di pulizia”, era data dal confezionamento degli ebanisti i quali lo raffinavano con intarsi preziosi, gemme e ori secondo i gusti dei propri laboratori e della moda (anch’essa privata ed esclusiva).

La parola che lo denomina, bidet, identificherebbe la “cosa” come francese. Ma, beninteso, è soltanto una delle teorie. La più accreditata, che è anche la più semplicistica, farebbe risalire il termine al tipo di utilizzo dell’oggetto su cui si sale in groppa come su un cavallo: alcuni studiosi di etimologia fanno derivare il nome dal celtico bid, che significa “piccolo” (in gaelico, bideach: “piccino”), e poi a una parola italiana desueta, bidetto, con cui si indicava un cavallo di minuta statura e, in senso figurato, un «vaso su cui uno si siede per lavarsi». E se, invece, fosse il cognome dell’inventore, tal Alphonse Bidet? Un valdostano emigrato a Parigi dalla valle alpina di Valtournenche alla fine del Seicento, appassionato d’idraulica: il giovane Alphonse, prima di morire, avrebbe consegnato a un mobiliere della famiglia reale, Christophe Des Rosiers (altre fonti, però, parlano di un certo Marc Andre Jacoud, che rivendicò l’invenzione), il prototipo utilizzato per le sue bagnature intime. Des Rosiers battezzò il pezzo igienico con il patronimico del giovane idraulico emigrante morto prematuramente, lo produsse in serie e riuscì a piazzarlo all’interno della reggia di Versailles in almeno un centinaio di pezzi. I bidet, però, non ebbero la fortuna sperata; nell’arco di un solo decennio gli stravaganti aggeggi furono dismessi uno dopo l’altro e finirono con l’allietare le giornate calde delle prostitute nei bordelli di Parigi: il bidet è tornato da dove era venuto, si disse.

18th_century_bidetIl curioso e ambiguo attrezzo sanitario provocò non poche alzate di scudi nel Settecento, illuminato ancorché bigotto quanto basta per confondere il bidet con una bacinella per sospette abluzioni rituali in odore di eresia, o di erotismo. Il rapporto d’intimità che si crea tra il fruitore e lo strumento del diavolo, fece pensare a una relazione malata con il corpo il quale, non si sa bene per quale motivo, sembrò che improvvisamente avesse bisogno di cure e di igiene, addirittura intime. Il fattore maggiormente spiazzante di queste prese di posizione è che non furono solamente i religiosi a salire sulla barricata anti-bidet, ma l’aristocrazia benpensante e moralizzatrice. Mentre gli antichi romani fecero delle terme un amabile luogo d’incontro, il cambio di prospettiva cristiana etichettò i bagni pubblici come seminaria venenata, i “focolai del vizio”; gli uomini di chiesa, memori della formazione degli anacoreti, si convinsero che l’acqua fosse un’insidia del demonio, una blandizia che attira gli uomini (peggio se donne) nella trappola della vanità e della cura di se stessi. Insomma, il bidet – che costringe a guardarsi e a toccarsi le parti del peccato – avrebbe sicuramente spedito tutti quanti all’inferno. La mortificazione del corpo non può convivere con l’igiene, e l’igiene fa a pugni con la morale: il paradosso fu nel considerare antigienico, e cioè malsano, il lustrarsi. Il sudiciume, invece, aveva virtù celesti, perciò i Padri della Chiesa inveirono contro la cura delle membra: san Girolamo predicava alle giovanette di farsi il bagno nell’oscurità, poiché altrimenti sarebbero incorse nel pericolo di vedersi nude; Gregorio Magno affermava che lavarsi era un lusso, dacché faceva perdere tempo; nei conventi medievali, muniti di enormi tinozze, per non peccare, era concesso prendere bagni solamente a ogni inizio di stagione. L’odore acre indirettamente promulgato dalla religione cattolica condizionò il comportamento, i costumi e anche le attività amatorie. La mancanza di nitore nelle parti basse fece crollare la borsa delle laboriosità orali, il sesso con la lingua di lui, o con la bocca di lei, era sconveniente giacché indecente, ma non solo: cunnilingus e fellatio erano ugualmente sconsigliati a causa della inadeguata condizione igienica delle parti da diletto le quali emanavano miasmi mefitici da cloaca. Dal punto di vista maschilista, gli effetti disastrosi della condizione sanitaria confermarono quanto avevano predicato san Girolamo delle donne che, non a caso, aveva chiamato saccum stercoris («sacco di merda»), e Tertulliano «un tempio di carne costruito su una fogna» o, meglio: «la porta del diavolo» (De cultu feminarum).

Si arrivò, quindi, al Settecento con quest’oscuro vergognoso retaggio intellettuale sulla pulizia intima e sui lavacri a cavalcioni sul bidet, inaspettatamente assurto a emblema del meretricio e a stravagante e sensuale oggetto piccante, protagonista finanche nella letteratura erotica di alcuni scrittori che si celarono dietro anonimato (Denis Diderot, o Jean-Baptiste de Boyer?) e del Divin marchese, Donatien-Alphonse-François de Sade, un maestro del genere. Per quanto tra i reali a Versailles andasse di moda la sala da bagno separata in un ambiente autonomo, il bidet continuò a essere uno strumento ben oltre ogni decenza, utilizzato per chissà quali sconci scopi dalle prostitute nei bordelli (qualcuno suppose addirittura fosse un adeguato mezzo anti contraccettivo), e l’attrezzo di lavoro – di “quel” lavoro – fu ripudiato, espulso sia da Versailles sia dalle abitazioni aristocratiche à la page.

Per come andarono le cose, e per l’atmosfera da caccia all’untore che tirava, la notiziola che intorno al 1739, in Francia, il bidet fosse pubblicizzato con la dicitura “custodia per violino in porcellana”, oppure con “stringhe di chitarra su tre piedini”, non può fare intendere che fosse il banale errore interpretativo di uno sciocco addetto al marketing ante litteram, bensì un modo un po’ astuto e un po’ tonto per aggirare il bigottismo e nascondere la reale identità del manufatto libertino.

Proprio in quegli anni, non molto tempo dopo, a Napoli arrivò Maria Carolina d’Asburgo Lorena, la regina straniera, dal 1768 moglie di Ferdinando, per il quale fu una musa ispiratrice. Il giorno in cui, dopo un lungo viaggio, sbarcò a Terracina e giunse nella capitale borbonica, fu una grande festa, al duomo sua maestà donò a san Gennaro una «ricca crocetta di zaffiri e di brillanti» (G. Buttà, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, 1877) e il popolo la acclamò pur non conoscendone le virtù: ancora nessuno poteva sapere – e apprezzare – le novità che la giovanissima sovrana trainava con sé nel proprio baule viennese. Maria Carolina, oltre a essere la figlia numero tredici di Maria Teresa d’Austria e dell’imperatore Francesco I, era una donna intelligente e volitiva. Dal 1775, con la nascita del primogenito, prese in mano la politica di corte, contribuì al distacco del regno dalla monarchia spagnola, e la vecchia élite ebbe le ore contate: «Carolina d’Austria, figlia di potente monarca, era bella di aspetto, non compiva gli anni sedici, ed avea senno maturo e virile: essa attirò gli sguardi del popolo, e tutti videro in Lei un’arra di regno felice. Tanucci [ex reggente, ministro di re Ferdinando di Borbone, n.d.a.] e Carolina si guatarono in cagnesco, non per disparità di principii, ma per gelosia di potere» (G. Buttà).

Maria Carolina portò a Napoli una ventata d’aria effervescente che a corte scompigliò il clima stantio; dal punto di vista dell’igiene, poi, la sua fu una rivoluzione. Non bisogna pensare, tuttavia, che la sovrana scandalizzasse i suoi sudditi, né che qualcuno osasse paragonarla a una cocotte o a una malafemmena, come sarebbe sicuramente accaduto altrove. Tutt’al più, qualche motteggio: pare che proprio per lei furono scritte le sestine goliardiche de La culeide, stampate e diffuse clandestinamente a Strasburgo nel 1842. Gabriele Rossetti (l’ipotesi è controversa, l’autore ignoto potrebbe essere il marchese di Caccavone, al secolo Raffaele Petra), poeta risorgimentale abruzzese-napoletano, per vendicarsi della soppressione dei moti liberali del ’99, nascose la propria identità con l’anonimato e prese in giro il «sacro monte» reale, sebbene la sovrana fosse da tempo all’aldilà. Non è dato sapere con certezza se Rossetti fosse a conoscenza del licenzioso bidet nell’appartamento di Caserta, tuttavia è a una certa Carolina – o alle sue maestose pudenda – che dedicò il poemetto:

Non canterò di favolosi Numi gli oracoli bugiardi; o di feroci mentiti eroi le gesta, ed i costumi; le gloriose colpe, o i casi atroci. Gli orrori o i sogni d’una età ferina non vo’ cantar; ma il cul di Carolina. […] Come placida viene al lido l’onda quando lieve sul mar Zeffiro scherza, che alla prima succede la seconda, e questa torna e va a lambir la terza, lieta d’un bacio al sen di Mergellina, così movesi il cul di Carolina.RossettI

Nonostante il cattolicesimo dominante, la regina Maria Carolina trovò un terreno pronto ad accogliere le innovazioni. A differenza con gli altri paesi europei, qualche secolo prima dell’insediamento della regina di Vienna, infatti, nell’anno Mille la Campania aveva ospitato una donna straordinaria spesso dimenticata, Trotula de Ruggiero, la più famosa tra le Mulieres salernitanae, le dame della Scuola Medica Salernitana con cui la nobildonna scienziata operò. Trotula fu il primo medico moderno di sesso femminile, a lei sono attribuiti studi fondamentali che, dal punto di vista scientifico, fondarono le discipline della ginecologia e dell’ostetricia (De passionibus mulierum ante in et post patrum). In un trattato sulle cure mediche delle donne, e a loro rivolte «perché non parlano volentieri delle loro malattie agli uomini, per un sentimento di pudore», nonostante il divario di circa settecento anni, la sapiente si dimostrò molto avanti rispetto alla tradizione medica del XVIII secolo, e alle stesse usanze dell’epoca dei Lumi:

bidet-anticoPrima dell’accoppiamento la donna dovrà pulirsi i genitali interni con le dita avvolte in lana asciutta. Successivamente, dovrà strofinare accuratamente gli organi interiori ed esteriori con un panno perfettamente candido. Quindi, dovrà divaricare le gambe così da permettere il deflusso completo di ogni fluido delle sue parti interne. Ciò fatto dovrà inserire tra le gambe il panno di lana e unire le gambe molto strettamente per asciugarle con cura. Poi, dovrà masticare la polvere di cui ho fatto cenno in altra parte dell’opera e strofinarsene le mani e i seni, cospargendo quindi acqua di rose sul pelo pubico, sul pube stesso e su tutte le parti adiacenti, senza dimenticare il viso e le orecchie. Così preparata, avvicinarsi al maschio (De passionibus mulierum curandarum, 1050 ca.).

Trotula, perciò, costituì la coltura su cui attecchì il seme dissoluto del bidet a quattro gambe in stile Luigi XV del bagno personale di Maria Carolina, un’idea di civiltà e di pulizia personale che fu aliena anche durante il secolo successivo. In Inghilterra, ancora nell’Ottocento, la pudica società vittoriana guardò all’igiene – e in particolare al bidet – come a una bizzarria continentale, un po’ come accade oggi, vista la posizione che ricopre la Gran Bretagna nella classifica dell’intima pulizia.

La regina Maria Carolina di Borbone, negli appartamenti privati in stile rococò della reggia di Caserta, realizzò, per prima, il “Gabinetto a uso del bagno” e il “Gabinetto a uso del ristretto”, una toilette all’avanguardia in cui introdusse pure l’innovazione dell’allacciamento della vasca alle condotte d’acqua corrente e i rubinetti miscelatori caldo/freddo, tanto da fare a meno degli inservienti di corte, un po’ guardoni e un po’ pettegoli. Con la sovrana, l’oggetto peccaminoso trovò finalmente la propria identità, e anche la riservatezza. Il lascivo e osceno strumento fu messo al riparo da occhi indiscreti, in un camerino appena distaccato, in modo che nessuno potesse scorgere Maria Carolina in atteggiamento intimo con se stessa. A tutela della discrezione delle graziose forme del posteriore reale, furono apposti un guardiano di specchi, attraverso i quali Maria Carolina era in grado di scorgere eventuali curiosi in avvicinamento o in agguato, e un dubbio simbolo ammonitore, alcune testine scolpite con gli occhi bendati: potevano sia indicare che in quel luogo non era legittimo sbirciare, sia minacciare sfortuna al malcapitato voyeur che rischiava la maledizione dell’indovino Tiresia, il quale divenne cieco dopo aver visto le forme senza veli della dèa Atena.

Nel resto dei grandi paesi europei il bidet fu quasi del tutto dimenticato. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se all’indomani della conquista militare del Sud, i funzionari sabaudi addetti all’inventario del magnifico palazzo reale di Caserta – la risposta napoletana a Versailles – rimasero sconcertati: si trovarono davanti un articolo curioso, mai visto, e di cui non conoscevano l’esistenza (A. Forgione, Made in Naples). Non sapendo come classificarlo, nel pubblico registro archiviarono il bidet della sovrana con una semplice descrizione che, se non fece ridere loro a quel tempo, fa certamente sorridere noi ora: «Oggetto sconosciuto a forma di chitarra».

Fonte: Maurizio Ponticiello

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