Daily Archives: 27 dicembre 2015

Storia e storie del panettone

Le origini del panettone sfumano a tratti nella leggenda. Sono due le storie che godono di maggior credito:

  1. Messer Ughetto degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e, per incrementare le vendite, provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina. Poi infornò. Fu un successo strabiliante, tutti vollero assaggiare il nuovo pane e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.
  2. Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili del circondario, ma il dolce, dimenticato nel forno, quasi si carbonizzò. Vista la disperazione del cuoco, Toni, un piccolo sguattero, propose una soluzione: «Con quanto è rimasto in dispensa – un po’ di farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta – stamane ho cucinato questo dolce. Se non avete altro, potete portarlo in tavola». Il cuoco acconsentì e, tremante, si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L’è ‘l pan del Toni». Da allora è il “pane di Toni”, ossia il “panettone”.

Il panettone attraverso i secoli

Pietro Verri narra di un’antica consuetudine che nel IX secolo animava le feste cristiane legate al territorio milanese: a Natale la famiglia intera si riuniva intorno al focolare attendendo che il pater familias spezzasse “un pane grande” e ne porgesse un pezzo a tutti i presenti in segno di comunione. Nel XV secolo, come ordinato dagli antichi statuti delle corporazioni, ai fornai che nelle botteghe di Milano impastavano il pane dei poveri (pane di miglio, detto pan de mej) era vietato produrre il pane dei ricchi e dei nobili (pane bianco, detto micca). Con un’unica eccezione: il giorno di Natale, quando aristocratici e plebei potevano consumare lo stesso pane, regalato dai fornai ai loro clienti. Era il pan di scior o pan de ton, ovvero il pane di lusso, di puro frumento, farcito con burro, miele e zibibbo.

Alla fine del Settecento si verificò una novità inattesa: la Repubblica Cisalpina s’impegnò a sostenere l’attività degli artigiani e dei commercianti milanesi favorendo l’apertura dei forni, mondo di delizie in cui guizzavano indaffarati i prestinee, e delle pasticcerie, regno incantato degli offellee. Nel corso dell’Ottocento, durante l’occupazione austriaca, il panettone diventò l’insostituibile protagonista di un’annuale abitudine: il governatore di Milano, Ficquelmont, era solito offrirlo al principe Metternich come dono personale. La ricetta del panettone viene ripresa da Angelo Vergani nel 1944, fondatore della Vergani, azienda che ancora oggi produce il panettone a Milano.[4] Il poeta Pastori, uno dei più apprezzati poeti milanesi del ‘900, cita questo tipo di panettone in una delle sue poesie.

Panettone di San Biagio

A Milano, è tradizione conservare una porzione del panettone mangiato durante il pranzo di Natale, per poi mangiarlo raffermo a digiuno insieme in famiglia il 3 febbraio, festa di san Biagio, come gesto propiziatorio contro i mali della gola e raffreddori, secondo il detto milanese “San Bias el benediss la gola e el nas (San Biagio benedice la gola e il naso)” [6]. In questo giorno i negozianti per smaltire l’invenduto vendono a poco prezzo i cosiddetti panettoni di san Biagio, gli ultimi rimasti dal periodo festivo.

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Attenzione alla civetta!!

Un animale che, secondo la tradizione popolare, ha influssi molto negativi. La tradizione popolare, e ovviamente anche quella romagnola, è densamente popolata di superstizioni legate agli animali, credenze che li pongono spesso in buona luce, ma molto più sovente sotto una cattiva fama. 
Queste superstizioni sono state purtroppo la scusa per cacce indiscriminate o per ritorsioni violente contro il malcapitato di turno e non è raro trovare persone che ancora, ovviamente pur non credendoci!, mal sopportano certe presenze e non mancano di compiere qualche gesto scaramantico.
L’esempio forse più noto a tutti è quello del gatto nero che, quando si azzarda ad attraversarci la strada… sicuramente era meglio se rimanevamo a casa perché qualcosa di sicuro accadrà. Ma non è solamente il gatto a portar fastidi. Nella notte si annida, è il caso di dirlo, un altro potente nemico: la civetta.
 
Il canto della civetta
La civetta la conosciamo un po’ tutti, anche se forse i più non l’hanno mai vista dal ‘vero’ ma solamente riprodotta in qualche libro di scienze naturali. E’ un piccolo rapace notturno (già questo basterebbe per giustificare la pessima fama) il cui nome scientifico è immensamente poetico: Athene noctua.
Vive un po’ in tutta Italia (solo le Alpi si salvano dalla sua scomoda presenza) e si contraddistingue per il corpo tozzo e la testa grossa, con due occhi rotondi e gialli che mettono spavento e lunghe zampe ricoperte di setole. A guardar bene, di notte, in campagna, si può scorgere la triste sagoma appollaiata su un ramo emettere un lugubre canto e allora, direbbero i superstiziosi, occorre fuggire lontano e non rimanere nei paraggi. Ma perché?
 
Un animale che porta la morte
Questo animale, da secoli, spaventa a morte i contadini. Guai a ritrovarselo vicino casa, perché la disgrazia sarebbe stata imminente. La tradizione romagnola e la letteratura prodotta negli anni passati sulle superstizioni locali, hanno citato più volte la cattiva fama del simpatico rapace.
Padre Agostino da Fusignano, ad esempio, in un’opera data alla stampe nella seconda metà del Settecento, raccogliendo alcune delle credenze del contadino romagnolo, è estremamente chiaro su ciò che può fare la civetta:
“Se canta una civetta vicino a casa vostra, tenete per infallibile che i preti canteranno presto le esequie sopra uno dei vostri”.
Il canto della civetta era così il triste annuncio della morte di un famigliare: come poter volere bene ad un animale che porta una così triste notizia?
E a diffondere questo suo ‘vizietto funebre’ contribuirono anche letterati e poeti, che sprecarono parole sulle abitudini del rapace. Così, sarcastico, il grande Aldo Spallicci “an rid piò insuna! agli à ciapè spavent / dla zveta ch’ porta sgrezia a chi ch’ la sent” scrive in una poesia dialettale contenuta nella raccolta “La Zarladora”.
 
Una superstizione antica
Ma quando è nato l’odio verso la civetta? Molto tempo fa, tanto che una sua connotazione negativa la si trova già nella cultura classica. Nelle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio, Asclalafo, figlio di Acheronte, il fiume degli Inferi, viene trasformato in una civetta maschio e, dopo la mutazione, altro non avrebbe potuto fare che predire il male. La civetta era ritenuta dai Romani così negativa che quando ne entrava una nel tempio di Giove Capitolino, occorreva purificarlo interamente.  Con tanta storia alle spalle dunque, ci si stupisce della pessima fama che ha mantenuto fino ad oggi?
Ma poi c’è anche il suo riscatto. Paradossalmente, nell’antica Grecia, la civetta era invece tenuta in grandissima considerazione come simbolo di vigilanza e di sapienza. Per questo era uno degli animali sacri alla dea Atena, dea della sapienza e della saggezza, dalla quale non si separava mai.

scoperto il meccanismo che fa sentire sazi

Siete affamati? scoperto il meccanismo che fa sentire sazi

Il senso di sazietà sarebbe collegato ai batteri presenti nell’intestino, uno studio mostra cosa regola il meccanismo

Siete affamati? scoperto il meccanismo che fa sentire sazi – Cosa ci fa sentire sazi e cosa invece regola il meccanismo della fame? Lo mostra un nuovo studio intitolato “Gut Commensal E. coli Proteins Activate Host Satiety Pathways following Nutrient-Induced Bacterial Growth” e pubblicato su Cell Metabolism, che si è concentrato sulla presenza, nell’intestino, di specifici batteri in grado di comunicare con il nostro organismo e di regolare la volontà di assumere o meno alimenti.

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La discarica piu’ alta del mondo(Everest)

L’aumentare delle spedizioni e il poco rispetto per l’ambiente mina il panorama e l’ecosistema della cima

UNA SCALATA DI RIFIUTI. Fino a qualche decennio fa l’Everest era una meta per pochissimi arditi. Ora le spedizioni semi-turistiche si vanno moltiplicando, mettendo in serio pericolo il fascino e l’ecosistema della cima del mondo. Laddove la natura si ergeva nella più totale incontaminazione, ora il panorama è orribilmente punteggiato da rifiuti umani, siano essi pezzi di tenda portati dal vento o cumuli di escrementi. Quello che stupisce è soprattutto la velocità del degrado: solo 62 anni fa, nel maggio del ’53, i temerari Edmund Hillary e Tenzing Norgay raggiungevano per la prima volta gli 8.848 metri dell’Everest, ammirando un panorama mozzafiato mai osservato prima. Ma in questo breve lasso di tempo, e soprattutto in conseguenza delle tantissime spedizioni degli ultimi anni, il paesaggio è stato completamente deturpato.

MULTE DI 4 MILA DOLLARI. Disgustato dallo scempio compiuto alla propria vetta simbolo, il governo del Nepal ha deciso di usare le maniere forti per limitare l’accumulo di rifiuti lungo le vie di ascensione dell’Everest. Non che durante gli anni scorsi il Nepal non abbia fatto nulla per ripulire le proprie cime: intere squadre di operatori sono inviate periodicamente per raccoglier i rifiuti lasciati da scalatori poco rispettose, e multe salate per chi inquina sono previste già da molto tempo, pur non essendo quasi mai applicate. Ma da adesso in poi, ha tuonato il governo del Nepal, si cambia tono: gli alpinisti che riscenderanno dall’Everest senza portare con se almeno otto chili di rifiuti (compresi quelli organici) rischieranno fino a 4 mila dollari di multa.

DEIEZIONI UMANE PRIMO PROBLEMA. Ed è certo che il problema cardine dell’inquinamento dell’Everest sono proprio gli escrementi umani. La Nepal Mountaineering Association ha infatti dichiarato che le bombole di ossigeno, le scale rotte, le lattine, i contenitori e le tende strappate sono problemi da niente se confrontati con la piaga delle deiezioni umane. Esse restano infatti coperte dal ghiaccio lungo tutto l’inverno, per poi apparire in superficie con lo scioglimento dei ghiacciai, ovvero con l’inizio della stagione dell’arrampicata. Da qui lo scempio del panorama, l’odore sgradevole e il timore per la salute di coloro i quali bevono l’acqua portata a valle dalla fusione dei ghiacciai.

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Perché quando sentiamo un urlo abbiamo paura?